Intervista a Gigi Simeoni
DDS ha intervistato l’eclettico autore Gigi Simeoni, per parlare con lui della sua attività come fumettista e romanziere. Gigi ci parla delle sue opere, di Dylan Dog e dei suoi progetti futuri. Buona lettura!
Salve Gigi, benvenuto su DDS. Parliamo del graphic novel La corsa del lupo (Sergio Bonelli Editore) un affresco corale, un racconto serrato e incalzante di cui lei è autore unico. Come nasce questo progetto e come si è sviluppato nel tempo?
Grazie per l’ospitalità, Gianfranco. L’idea originale era di farne un graphic-novel, dopo il successo de Gli occhi e il buio. A Sergio Bonelli era piaciuto il plot e mi aveva già formalmente dato il “via”, quando si accorse che era già in lavorazione un altro fumetto di genere bellico. Non volendo pubblicare opere troppo simili in breve tempo, mi chiese di dedicarmi a qualcos’altro (e così, nacque Stria, un horror psicologico). Dell’idea, però, ormai non riuscivo a liberarmi, e ne trassi un romanzo in prosa che proposi a Mondadori – inizialmente accettato e poi rifiutato – che restò nel cassetto fino al 2016, quando tornai all’assalto in SBE con l’idea originaria della versione a fumetti. Che fu, finalmente, accettata e varata.
Chi o cosa ha influenzato maggiormente il suo stile artistico e narrativo?
Da bravo onnivoro, godo nel cibarmi di qualsiasi cosa mi attragga. Sono sempre stato convinto del fatto che non esistano storie banali ma modi banali di raccontarle, e questo mi ha spinto ad avvicinarmi a opere molto diverse tra loro. Ho trovato spesso esaltanti opere minori, o misconosciute, perché non viziate dalla smania del successo commerciale, letterario o di critica. Detto questo, direi che Magnus (Roberto Raviola) è piuttosto evidente nella mia “chiave di volta”, ma ho amato e assorbito anche tanti altri grandi autori dei miei anni verdi, come Manara, Moebius, Pazienza, Bilal, Corben, Caza, Abuli & Bernet, Liberatore, e anche titani del fronte umoristico come Cavazzano, Goscinny & Uderzo, o Jacovitti. Quando c’è stato il boom della Bonelli, alla fine degli anni ’80, ero già sgrossato nei mie fondamenti.
Ha lavorato su molte serie della Bonelli come Dylan Dog, Nathan Never e Brendon. C’è un personaggio o una serie a cui si sente particolarmente legato? Perché?
Dylan Dog, in assoluto. Era una testata con alto contenuto autoriale e sperimentale, mi attirava la filosofia di Sclavi e il suo rispetto per la personalità di ogni singolo autore che collaborava con lui. E infatti, era stata la mia prima scelta all’ingresso in Bonelli. Mentre aspettavo il verdetto con le dita incrociate, per motivi logistici fui collocato su Nathan Never, e solo come disegnatore. Un passo indietro, rispetto alla grande libertà di cui avevo goduto fino a quel momento, ma una grande opportunità per imparare a inserirmi nella “catena di montaggio” della Major League dei fumetti italiani per eccellenza, imparare a obbedire e rispettare le consegne comunque e dovunque. Riguardo alle altre testate a cui ho collaborato (Brendon, Volto Nascosto, Tex), sono state solo “ospitate” richieste direttamente dai titolari di testata, talvolta per la mia qualità-versatilità e l’affidabilità nel rispetto delle consegne, altre volte per la cifra stilistica e narrativa.
Gli occhi e il buio e Stria sono due opere molto diverse tra loro. Cosa l’ha ispirata a creare queste storie e come ha sviluppato le loro trame?
La prima – Gli occhi e il buio – nasceva intorno a un concetto attorno al quale mi arrovellavo da molto tempo, ossia: Arte è Libertà Espressiva Totale? E se Libertà deve essere, deve essere anche libera dai vincoli delle convenzioni morali-legali e di convivenza civile? Uccidere come forma d’Arte, cosa comporterebbe? Da lì, poi, la “vestizione” di questo concetto sviluppandone la storia portante, scegliendo personaggi, epoca, contesto generale, dialoghi, ecc. Riguardo a Stria, invece, il procedimento era esattamente contrario. Nessuna idea pregressa, nessun concetto ragionato. Solo una necessità di redazione: una storia da sviluppare nell’arco di un’estate, che non fosse bellica e che non fosse un altro thriller storico. In più, siccome alcuni produttori cinematografici avevano notato una mia tendenza alla scrittura adatta per lo schermo e si erano mostrati interessati a produrre un film tratto da “Gli occhi e il buio” prevedendo però da subito importanti costi produttivi (circa tredici milioni di dollari, nel 2010), mi ero ripromesso che col secondo graphic-novel, avrei “contenuto” gli eventuali costi in caso qualcuno avesse avuto l’idea di trarne un film: poche location, pochi personaggi, nessun contesto storico particolarmente costoso da riprodurre. Cose che in effetti funzionò, fino a un certo punto. Ma i tempi del cinema sono lunghissimi, a volte: il discorso è ancora aperto e per scaramanzia non ne parlo oltre.
Come affronta la creazione di un’opera originale rispetto alla scrittura per serie preesistenti?
Onestamente, respiro sempre una grande quantità di libertà espressiva. Lo sto facendo proprio in questi giorni con Dampyr e Zagor, serie già esistenti per le quali mi sono state richieste due sceneggiature. I compiti a casa da fare si riducono alla lettura di una ventina di albi rappresentativi, per entrare nel mood giusto del linguaggio visivo e verbale peculiari delle serie… ma il resto – ferma richiesta e conditio sine qua non di chi mi richiede una collaborazione – deve essere farina del mio sacco, il mio sistema narrativo e di gioco tra visual e parola. La mia cifra. Una storia originale conta anche su personaggi creati da me, e che portano sempre brani della mia psicologia, del mio carattere. Sono, devo dirlo, figli miei nel vero senso della parola. Quindi, è chiaro che la coralità di un’opera interamente mia è ben altra cosa, rispetto a una storia basata in gran parte su fondamenta progettate da altri. Certo, poi ci sono dei casi – come in Dylan Dog – in cui le sfumature dei personaggi si avvicinano molto al mio stesso modo di ragionare, reagire, parlare. Tiziano Sclavi apprezza molto il mio modo di lavorare sul suo personaggio e non manca mai di farmi arrivare il suo apprezzamento, insieme all’affetto che ci lega.
Come bilancia l’aspetto visivo con la narrazione nei suoi lavori? Viene prima la storia o l’immagine?
Viene sempre prima la storia. Ho dovuto impormi, crescendo, un rigore estremo proprio perché per questioni naturali, soprattutto da giovanissimo, tendevo sempre a buttarmi da subito su matite e fogli vergini, senza alcuna idea di sviluppo. Tavole ridondanti, lussuose, piene di dettagli, colorate, rifinite… e poi finivo a scrutare il soffitto in cerca di un modo per uscirne e per arrivare alla parola “fine”. Ma è esattamente come un progetto di architettura: puoi disporre dei rivestimenti più lussuosi, dei serramenti più belli e ricchi, dei legnami più preziosi… ma senza un progetto architettonico dettagliato, ‘ndo vai? Poi è assolutamente vero che, a volte, un’immagine sola può scatenare l’idea e che questa idea nasce intorno all’immagine come la perla intorno al granello di silice. Non c’è una regola fissa per l’estro creativo (e, in questo, l’Intelligenza Artificiale non potrà mai eguagliarci).
Le sue opere spesso esplorano temi oscuri e psicologici. Da dove trae ispirazione per questi temi?
La dualità intrinseca dell’animo umano, diviso tra Bene e Male (o meglio, tra ciò che le condizioni personali, culturali, sociali e storiche in quel momento impongono come Bene e Male), mi affascina da sempre. Sono molto più affascinato dai personaggi border-line che da quelli che si sentono al sicuro arroccati nella bambagia perbenista, oppure quelli che fanno i cattivi a oltranza e per scelta (e tutti accomunati da un qualche tipo di profitto, che sia guadagno, prestigio o potere). Il vero eroe non è quello che va all’assalto senza paura, insomma, ma quello che ci va facendosela addosso. Ho sempre amato lo squattrinato e umorale Paperino, da piccolo, e detestavo Topolino perché era fortunato, intelligente, equilibrato. Di conseguenza, sono cresciuto ammirando tutti i miei “eroi” che uscivano a testa alta da situazioni imbarazzanti, dopo aver subito ogni tipo di angheria. Per questo, a volte, lascio “fallire” i personaggi (miei o affidati a me), perché da ogni fallimento si esce rinforzati. E poi, dai, qui siamo nell’ambito dell’autoanalisi. Scrivere è come stare sdraiati sul lettino dello strizzacervelli, e aver l’opportunità di stendere parte di noi su una storia a fumetti o un libro… beh, non ha prezzo.
Come vede il futuro dell’industria dei fumetti, specialmente con l’avvento delle nuove tecnologie e dell’intelligenza artificiale?
Ci sarà un primo periodo di folle cannibalismo, di anarchia totalmente sregolata e di lotte di classe tra editori spregiudicati e autori. La stragrande maggioranza dei soggettisti/sceneggiatori, dei coloristi e dei disegnatori finiranno per essere esclusivamente dei “supervisori qualità”, e interverranno solo per correggere le inesattezze prodotte dalla A.I, la quale scriverà e disegnerà tutti i prodotti sotto i dieci euro ad albo, dai libri per bambini ai fumetti banal-avventurosi. Alla fine, ne uscirà un solo tipo di fumetto creato interamente da umani, ossia il migliore mai prodotto, ma sarà anche molto caro, elitario, esclusivo. Campare di solo fumetto, tra dieci anni, sarà come oggi pensare di campare facendo il Cantastorie in giro per i paesi. I disegnatori gireranno infatti per strada, con i loro tavolinetti, e disegneranno “commission” al volo ai passanti come oggi si fanno le caricature. Io mi sto già organizzando, vorrei andare a fare ’sta cosa sul Lago di Garda, oltre a produrre un fumetto ogni due anni, che costerà ottanta euro a copia. Ora ho scherzato un po’… ma nemmeno troppo, date retta.
Cosa ci può dire dei romanzi I lupi di Hitler e I delitti del fante di cuore (Newton Compton Editori)? C’è un genere piuttosto che una storia, una forma di scrittura con la quale vorrebbe cimentarsi e che non ha ancora affrontato?
Questi due romanzi in prosa sono tratti direttamente dalle loro versioni a fumetti, ossia “La corsa del Lupo” e “Gli occhi e il buio”. In realtà, avevo scritto per primo quest’ultimo, molti anni prima, ma come spesso accade era rimasto a decantare in un cassetto (dapprima sembrava lo volesse la Mondadori, ma poi non se n’era più fatto nulla). Per quanto riguarda “La corsa del Lupo”, l’iter seguito era stato grosso modo lo stesso: Mondadori si era detta interessata, in un modo o nell’altro mi avevano convinto a terminare la prima stesura e infine avevano deciso di non “contrattualizzarmi”. Un altro al mio posto avrebbe gettato la spugna, ma non io. Avevo due romanzi che altri avevano giudicato molto validi (e per “altri”, intendo gente del settore che ne sapeva abbastanza), però capii che promuoverli da solo senza appoggiarmi a un’agenzia vera, non avrebbe prodotto altro che ulteriori perdite di tempo. Così, nel 2021 mi proposi alla United Stories di Luca Briasco, Francesca de Lena e Colomba Rossi, che mi presero subito. A Dicembre ero in libreria col marchio Newton Compton. Riguardo ai generi che amo, sono talmente tanti e diversi che non saprei quali indicare, perché farei un torto agli altri. Però, sento da tempo in me l’urgenza di scrivere anche qualcosa di comico, molto pungente. Ho sempre amato lo scrittore Donald Westlake, infatti, il quale aveva campato per anni con i suoi “pulp” piuttosto violenti e drammatici… salvo, poi, lasciarsi andare di tanto in tanto a romanzi spassosissimi come – ad esempio – la serie de “Gli ineffabili cinque”, che ritengo una delle letture più divertenti in cui io sia mai incappato.
Ci può dare qualche anticipazione sui suoi progetti futuri?
Più che progetti, direi “sogni”. “Sogno n. 1”, riuscire a scrivere per il cinema e/o le piattaforme streaming; “Sogno n. 2”, poter andare avanti coi miei romanzi (ne sto scrivendo uno proprio ora); “Sogno n. 3”, continuare a scrivere e disegnare “Dylan Dog” (in realtà, più per far parlare Groucho che non per i mostri e i fantasmi…). Non scarto nemmeno l’eventualità di mettermi a scrivere una qualche pièce teatrale (due scene e quattro personaggi, la sfida più grande e migliore per qualsiasi dialoghista!) o di mettermi a pubblicare poesie in rima e canzoni divertenti. Chissà.
[A cura di Gianfranco Staltari]
Gigi Simeoni
Bresciano, del 1967, Simeoni fa parte di quel gruppo di giovani autori (Rossi, Mutti, Olivares) formatisi sotto la guida di Rubén Sosa, e che daranno vita alla serie “Full Moon Project”. Dopo una parentesi professionale maturata in ambito pubblicitario, Simeoni passa a occuparsi di fumetti a tempo pieno con la serie in questione, quindi con “Lazarus Ledd” (Star Comics) e “Intrepido”, dell’editrice Universo. È tra gli ideatori di “Hammer”, che chiude al tredicesimo numero; come gli altri esponenti della scuola bresciana, trasmigra alla Bonelli e debutta sulle pagine di Nathan Never con l’episodio n. 64, “L’isola nel cielo”. Successivamente lavora anche per Brendon (2001), Gregory Hunter (scrivendo e disegnando il primo Maxi Gregory Hunter, nel 2002) e Volto Nascosto (2007). Nel 2007 è anche autore completo de “Gli occhi e il buio”, numero 2 della collana Romanzi a Fumetti Bonelli. Nel 2011 firma “Stria”, quinto volume della stessa collana. Suoi i romanzi I lupi di Hitler e I delitti del fante di cuore pubblicati da Newton Compton Editori.
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