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Intervista a Nicola Lombardi

Intervista a Nicola Lombardi

Intervista a Nicola Lombardi

DigitalDreamscape ha intervistato Nicola Lombardi, scrittore affermato con all’attivo numerose opere nel campo dell’horror sia italiano che internazionale. Abbiamo parlato con lui delle sue opere, del fare horror oggi e dei suoi progetti futuri. Buona lettura!

Ciao Nicola, benvenuto su DDS. Hai esordito negli anni ’80 e hai all’attivo numerosi libri, dai romanzi alla saggistica, dalle traduzioni alle raccolte di racconti, sempre a tematica horror. Una volta Stephen King ha dichiarato che ha scelto l’horror perché non ne potevo fare a meno, è stato un matrimonio di fatto. Faccio a te la stessa domanda, perché l’horror? C’è stato un evento o un’opera specifica che ti ha ispirato?

Ciao, e grazie per avermi invitato su DDS. Dunque, per quanto io stesso mi sia ormai posto questa domanda decine di volte, non sono mai approdato a una vera risposta. La realtà è che mi ritrovo sopraffatto da questa attrazione per il macabro, l’inquietante, lo spaventoso fin dall’infanzia, per cui sono cresciuto accettando questa mia inclinazione come un’imprescindibile peculiarità della mia natura. Se poi un evento c’è stato, direi che è ben sepolto nell’inconscio, e ti confesso che non ci terrei proprio a portarlo in superficie; magari è psicanalisi spicciola, ma credo che un simile stravolgimento porterebbe al crollo di tutto il castello di fantasie tenebrose in cui vorrei continuare a mantenere lucida ed equilibrata la mia mente. Col romanzo Madre nera, a proposito, ho trattato proprio questo tema, ovvero ho immaginato di risalire all’infanzia e rintracciare il famoso, sanguinario trauma latente, rivestendo il protagonista di tantissimi rimandi autobiografici, e giungendo a una conclusione estremamente personale.

Parliamo di alcuni dei tuoi libri più famosi, ristampati da diversi editori in Italia. La Cisterna, pubblicato da Independent Legions Publishing in italiano, è un’opera che ha catturato l’immaginazione di molti lettori. Puoi raccontarci come è nata l’idea di questa storia?

Ognuna delle mie idee nasce spesso da stimoli molto semplici, a volte anche banali, che però hanno per me il potere di suscitare una serie di potenziali, immaginarie evoluzioni; sempre in senso deleterio, naturalmente. Io abito nelle desolate e amatissime campagne ferraresi, e gironzolando è frequente imbattersi in grossi silos di cemento, destinati a immagazzinare cereali o altro. Il pensiero di udire urla o lamenti umani provenienti dal loro interno scaturisce spontaneo, e dalla suggestione di questo essenziale nucleo narrativo tutto il resto è venuto da sé, a cascata. Ho scelto poi di non dare al romanzo connotazioni né geografiche né temporali, in modo che la storia potesse apparire sospesa, allegoricamente, in una sorta di limbo (o inferno) della coscienza collettiva.

Qual è stata la sfida più grande nel creare l’atmosfera opprimente e claustrofobica de La Cisterna?

Forse quella di bilanciare costantemente l’esposizione di avvenimenti e situazioni innegabilmente raccapriccianti con il fatto che il protagonista viva il tutto come se si trattasse di una condizione normale, da lui stesso scelta con iniziale entusiasmo. L’ambientazione praticamente unica e ben delimitata aiuta già di per sé a infondere alla storia un’aura claustrofobica, ma la dinamica narrativa a cui puntavo era quella di spostare gradualmente, ma inesorabilmente, l’ottica del Custode, in modo che la realtà oggettiva rimanesse ovviamente la stessa, dall’inizio alla fine della storia, mentre a mutare radicalmente di segno è l’atteggiamento mentale del protagonista; in pratica, ho cercato di trasmettere l’idea che non sono tanto gli stimoli esterni, a mutare, quanto la percezione che ne ricava chi li vive e li racconta, e che la transizione da sogno a incubo o viceversa è un processo frequentissimo, nell’esperienza umana.

Madre nera, pubblicato da Weird Book, esplora temi complessi come la maternità e l’oscurità interiore. Cosa ti ha ispirato a scrivere su questi argomenti?

Come accennavo, Madre nera nasce con l’intento di rispondere a una domanda per me fondamentale: perché questa passione/ossessione per il lato più oscuro e pauroso dell’esistenza? Per questo ho immaginato un viaggio a ritroso dentro me stesso (o meglio, dentro il protagonista), un viaggio nella memoria che invariabilmente riconduce all’idea di un’origine, quindi di una “madre”. La Madre del titolo è individuata narrativamente in una figura femminile concreta (che a sua volta deriva da mie precise reminiscenze infantili), ma al contempo rimanda metaforicamente al concetto di Paura intesa come matrice, come insondabile pozzo d’ombra da cui è scaturita la nostra esistenza. Ma dire Madre, per antonomasia, vuole anche dire Amore, e con questo romanzo ho voluto tributare tutta la mia gratitudine a questa benedetta stortura mentale che in più modi mi ha salvato la vita.

Come hai concepito l’idea di utilizzare un’entità oscura come metafora per esplorare le relazioni familiari?

Le relazioni famigliari scaturiscono da una comune origine, da una radice che è individuabile nella maternità, quindi nella nascita. È più comune abbandonarsi a congetture in merito all’ignota destinazione della nostra esistenza, e se abbiamo vari mezzi per poter formulare delle ipotesi (la religione, la filosofia, la poesia…) è innegabile che quanto ci attende rimane celato dietro una barriera di oscurità. Ma io trovo altrettanto inquietante indagare sulla tenebra insondabile che sta alle nostre spalle, una tenebra che probabilmente desta minori preoccupazioni, in quanto la linea del tempo ci conduce (almeno apparentemente) nella direzione opposta; ma il buio da cui proveniamo, da cui è scaturita la nostra coscienza, è un’idea che può dare adito a considerazioni fantastiche e stranianti, una dimensione di tenebra di cui tutti noi siamo figli. Ed è allora in quest’ottica, appunto, che l’evocare metafore oscure ben si adatta a esplorazioni di questo genere.

I Ragni Zingari, pubblicato da Solfanelli, mescola elementi di folklore con l’horror. Come hai integrato le tradizioni e le leggende nella trama?

Una cosa che faccio spesso, quando devo escogitare storie dall’impianto folkloristico, è quella di inventare leggende inesistenti, e trattarle come se fossero invece profondamente radicate nel quadro ambientale del racconto. Mi è capitato spesso di sentirmi domandare se una determinata leggenda circola veramente o meno, e solitamente mi diverto a rispondere che nessuno la conosceva prima che io la divulgassi, ma che ora – per il solo fatto di essere entrata nella coscienza del lettore – esiste davvero. È il caso dei Ragni Zingari, delle Pie Madri, della Sanguigna, delle streghe di Pastrenno… La verità è che non ho mai amato ricamare su leggende esistenti, se non per precise commissioni, preferendo dare sempre libero sfogo alla fantasia, senza alcun vincolo. Premesso ciò, e tornando a I ragni zingari, posso dire che ho elaborato la trama proprio come una ragnatela, partendo da un centro e cominciando a girarci intorno. Il centro in questione è rappresentato unicamente dal titolo palindromo, e dalla conseguente necessità di costruirci sopra una storia. Il resto è venuto praticamente da sé: l’ambientazione geografica (imprecisata, ma facilmente individuabile nel panorama rurale in cui sono cresciuto), la collocazione temporale (un periodo confuso e dolente, imperniato su una generale insicurezza) e i conflitti da cui muove l’azione (rancori familiari, delitti dimenticati, relazioni inquiete), mentre al di sopra di tutto incombe questa folle credenza dei ragni che escono dagli specchi, o forse solo dalle menti scheggiate dei personaggi che si agitano inutilmente sullo sfondo di una Storia grigia come le loro esistenze.

Cosa ti ha affascinato dei ragni come simbolo o figura centrale nella tua narrazione?

I ragni zampettano in diversi miei racconti, anche perché – pur non essendo aracnofobico in senso stretto – trovo che queste bestiole incontrollabili ben rappresentino la sfuggevolezza e l’irragionevole repulsione nei confronti di imprecisate, ataviche mostruosità (e le scolopendre non sono da meno). Probabilmente, l’idea di ritrovarsi intrappolati, e impotenti, in una gigantesca ragnatela, in attesa dell’implacabile arrivo del carnefice richiama un po’ (amplificandolo in maniera chiaramente malata, ovvio) lo schema stesso della vita. Nel caso dei ragni, comunque, posso additare come uno dei possibili “colpevoli” di questa mia fisima la tavola di un vecchio “Tex Willer” vista da bambino, in cui un uomo veniva aggredito e ucciso nel proprio letto da un ragno grosso quanto un San Bernardo. Quel disegno si è scavato una nicchia nel mio immaginario, e non se n’è più andato!

Molti dei tuoi lavori esplorano temi oscuri e inquietanti. C’è un tema particolare che ti appassiona o che trovi particolarmente stimolante?

Risposta non facile, dal momento che se passo in rassegna i molteplici temi che orbitano attorno al nucleo dell’horror trovo in ciascuno motivi di attrazione. Potrei prendere in considerazione, genericamente, il concetto di “perturbante” proposto da Freud, ovvero tutto ciò che ingenera nell’animo un senso di inquietudine o di pericolo per il fatto di esserci intimamente familiare, nonostante la sua (paradossale) alienità. Il tema degli artefatti antropomorfi, per esempio, porta con sé, invariabilmente, un enorme potenziale pauroso: burattini, pupazzi, bambole, statue… Tutto materiale che respinge e attrae allo stesso tempo. Ma se devo individuare un tema in particolare, uno che ha sempre esercitato su di me un fascino incredibile, è quello delle streghe, intese fantasticamente nella loro accezione più orrida e malvagia. Non per nulla Suspiria di Dario Argento è il mio film culto, in assoluto. Me la godo sempre, quando ci sono di mezzo le streghe.

Il genere horror è spesso visto come un riflesso delle paure della società. Come interpreti questa affermazione nel contesto delle tue opere?

Sì, da sempre esiste una lettura dell’horror in chiave sociologica, lettura che si basa su solide considerazioni e che trova costanti riscontri; l’horror, come del resto la fantascienza, si presta egregiamente alla rappresentazione metaforica di qualunque disagio sociale. Per quanto mi riguarda, però, non posso dire di usare l’horror in questo senso, dal momento che ogni mio romanzo o racconto rimanda a un quadro psicologico strettamente personale. Le mie creazioni sono sempre permeate da timori individuali, non collettivi. Ho sempre faticato, e continuo tuttora, a sentirmi integrato nel tessuto sociale in cui mi ritrovo; pertanto, seguo d’istinto solo quei sentieri che sento veramente miei, e che mi portano dove voglio andare davvero.

In che modo credi che il panorama del genere horror sia cambiato negli ultimi anni? Ci sono nuove tendenze o movimenti che trovi interessanti?

Ci troviamo in un momento di grande fermento, da questo punto di vista. La produzione è abbondante: la piccola/media editoria sforna prodotti a spron battuto; il cinema (sulle piattaforme on demand) rende difficile restare al passo; il mercato videoludico trabocca… Sottolineo questo con soddisfazione, anche se lo step successivo obbliga a prendere atto della qualità, come spesso accade quando la quantità si fa rilevante e il settore si inflaziona; per cui molto spesso mi ritrovo a leggere/vedere cose che subito etichetto come “tempo sprecato”, pur con la consapevolezza che conoscere fa sempre bene, soprattutto se poi ci si ritrova a volerne o doverne parlare.

Se il panorama horror è cambiato negli ultimi anni? Troppo eterogeneo, troppo variegato per riconoscere o individuare un percorso, anche perché l’andamento è talmente ondivago, tra perle indipendenti, continui remake/sequel/prequel/reboot, sporadiche genialate, serialità avvilenti e via dicendo. Passi avanti e passi indietro, insomma.

Una tendenza che trovo interessante, perché vi riscontro tante affinità con i miei lavori, è quella del cosiddetto folk horror; che certo non è una novità, ma che di recente sta dimostrando un rinnovato vigore. Sul versante strettamente editoriale, apprezzo molto il recupero e la scoperta di autori e opere datate rimaste ingiustamente inedite in Italia: un bacino davvero ricco di meraviglie.

Ti occupi, tra le altre cose, della curatela di alcune collane per Weird Book. Come curatore, quali sono le maggiori soddisfazioni e le maggiori difficoltà del tuo lavoro? In che modo il tuo lavoro come autore influenza il tuo ruolo di curatore editoriale, e viceversa?

La mia maggiore soddisfazione, nel curare un’antologia, è quella di scovare e porre all’attenzione del pubblico buone storie (almeno dal mio punto di vista), sia italiane che internazionali. La maggiore difficoltà sta invece nello scartare proposte, cosa che solitamente faccio motivando la mia decisione. Ora, ci sono autori che comprendono e accettano di apporre modifiche al loro lavoro, oppure eventualmente sottopongono qualcos’altro. Ma ci sono, prevedibilmente, anche quelli che se ne risentono ed esprimono giudizi dispregiativi o arroganti, anche puerili; va da sé che sopra il loro nome metto una bella croce rossa, e li dimentico.

In quanto alla seconda domanda, nel selezionare racconti mi lascio guidare quasi esclusivamente dai miei gusti di lettore, ovvero valuto d’istinto tutti quei parametri che durante la lettura mi danno o meno soddisfazione: originalità della trama, stile espositivo, ritmo narrativo, capacità di sorprendere.

 Le tue opere sono tradotte anche all’estero e hai collaborato con autori del calibro di Lee Murray e Ramsey Campbell. Puoi raccontarci come vi siete conosciuti e come è iniziato il vostro lavoro insieme?

Ho incontrato Campbell – uno dei miei idoli letterari fin dall’adolescenza – a Roma nel 1995, in occasione del Fantafestival, ma ho dovuto poi attendere l’avvento dei social per riallacciare i rapporti, soprattutto dopo aver tradotto alcuni suoi racconti e partecipato a un paio di antologie insieme a lui (The Beauty of Death I e II, curate da Alessandro Manzetti per la ILP). Molto semplicemente (e senza eccessive aspettative, devo ammettere) gli ho chiesto se per caso non si ritrovasse nel cassetto un racconto incompiuto, qualcosa che avrebbe accettato di lasciarmi proseguire e completare. La sua gentilezza è stata infinita: nel giro di una settimana mi ha inviato quattro cartelle, spiegandomi a grandi linee qual era la sua idea originaria, e mi ha lasciato carta bianca. Mi sono quindi messo di buona lena e ho completato il racconto (in italiano) rispettando per certi versi le indicazioni e per altri deviando verso risvolti più personali. Dopodiché, col prezioso ausilio del mio traduttore storico, Joe Weintraub, ho rimandato il tutto a Campbell, il quale ha approvato senza riserve. Così è nato il delirante “In un pallido mattino di pioggia” (“In a Pale, Rainy Morning”).

Ho allacciato un bel rapporto di amicizia anche con Lee Murray, sempre tramite social, incoraggiato da un suo lusinghiero giudizio in merito a un mio racconto. Con lei la collaborazione è nata seguendo un processo inverso: avevo un racconto incompiuto, e le ho chiesto se le andava di completarlo insieme. Lei si è dimostrata subito entusiasta, e dopo esserci rimpallati due o tre volte il racconto, tra reciproche modifiche e integrazioni, abbiamo sfornato “Il tempo dei sogni” (“Dreamtime”). È stato molto interessante, per me, confrontarmi con una cultura diversa, quella maori neozelandese, che ha una concezione della malattia mentale e dell’autismo ben diversa da quella con cui avevo inizialmente affrontato un personaggio del racconto, per cui la storia ha assunto sfumature impreviste e originali, pur mantenendo salda la struttura orrorifica di base. La collaborazione con Lee Murray è poi proseguita anche a livello di traduzioni: aver avuto l’opportunità di tradurre per la Weird Book la sua raccolta Grotesque, vincitrice di uno Stoker Award, è stata per me una grandissima soddisfazione.

Ci sono rituali o abitudini particolari che segui quando scrivi?

Vorrei averne, in modo da poter rispondere in maniera originale o curiosa a questa domanda. In realtà, molto banalmente, quando scrivo non ho alcun rituale o abitudine. Nessuno di cui mi renda conto a livello cosciente, perlomeno…

Hai qualche progetto futuro o nuove opere in arrivo di cui puoi parlarci?

Ho sempre bisogno di avere dei progetti, piccoli o grandi, altrimenti è finita. Dunque, ho di recente consegnato a Weird Book una mia nuova raccolta di racconti, editi e inediti, che potrebbe uscire entro l’anno. C’è poi all’orizzonte la pubblicazione con un ottimo editore di un nuovo romanzo scritto a quattro mani con Luigi Boccia, il sequel del thriller storico Strigarium uscito un paio d’anni fa nel Giallo Mondadori. Sul versante traduzioni, invece, ho appena ultimato di lavorare alla novella di Lee Murray Despatches, e ho già messo in cantiere una nuova raccolta di racconti di Seabury Quinn per la Profondo Rosso di Luigi Cozzi.

Nicola Lombardi (Italia, 1965) scrive narrativa horror e weird dagli anni ’80. È autore di vari romanzi e raccolte, e ha pubblicato due novelizzazioni dei film di Dario Argento “Profondo Rosso” e “Suspiria”. Lavora anche come traduttore, saggista e curatore di antologie. Maggiori dettagli sono disponibili su www.nicolalombardi.com.

[A cura di Gianfranco Staltari]




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